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Emergenza cinghiali in Cilento: un problema ancora senza soluzione

Le soluzioni del Parco fin ora non sono riuscite a limitare il problema

A cura di Arturo Calabrese
Pubblicato il 27 Marzo 2020
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Cinghiale

Mentre le campagne si svuotano per l’esodo che ogni anno vede migliaia di giovani lasciare i paesi in favore delle città o il Sud in direzione Nord, gli animali si avvicinano sempre più ai centri abitati. Nel Cilento, tale situazione si è però trasformata in un’emergenza, diventata ormai di lungo corso, con seri danni alle coltivazioni ed anche ai residenti. Da anni la popolazione di cinghiali tocca, in un ristretto territorio, numeri molto elevati a causa di un’eccessiva moltiplicazione degli esmplari.

I cinghiali non trovano abbastanza cibo nel bosco o nelle campagne, ove solitamente vivono, e per sopravvivere si spostano laddove riescono maggiormente a sfamarsi. Luoghi ideali diventano i campi coltivati dall’uomo, in special modo grandi appezzamenti di terreno con coltivazioni intensive, ma non vengono disdegnati i piccoli terreni, gli orti e i pascoli. La trasformazione di una normale presenza faunistica in emergenza è dovuta a vari fattori i quali, messi insieme, hanno portato all’odierna situazione.

Una decina di anni fa, l’Ente Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni ha introdotto in natura diversi esemplari di cinghiali, in ottemperanza ad una direttiva europea di difesa delle specie. Da qui l’inizio della problematica: gli esemplari immessi erano cinghiali del nord Europa, una specie più forte e prolifica del cinghiale cilentano. Le due specie si sono incrociate, creando un ibrido più grande del cilentano e capace di riprodursi velocemente e in gran quantità: una femmina può dare alla luce una dozzina piccoli ogni sei mesi. A ciò si aggiunge la caccia indiscriminata portata avanti da cacciatori inesperti. I cinghiali vivono in gruppo ed ogni famiglia ha un capo branco, un maschio alpha. Se in una battuta di caccia quest’ultimo viene ucciso, si crea uno squilibrio negli accoppiamenti che porta a maggior nascite. Il tutto deve essere inserito in un territorio a bassa incidenza umana dove i cinghiali posso agire indisturbati.

Nel 2016, l’Ente Parco ha avviato dei corsi per la formazione di cacciatori istruiti, i cosiddetti selecontrollori, utilizzati per un abbattimento selettivo degli ungulati. I selecontrolli, oggi, ci sono e sono autorizzati a sparare anche in periodi in cui la caccia sarebbe vietata, ma dopo qualche mese di attività, le battute di caccia controllate si sono fermate e della loro sorte non si sa nulla. Il Parco fu obbligato ad attivarsi in tal senso perché erano molteplici le richieste da parte delle istituzioni che raccoglievano le proteste di agricoltori e imprenditori, ma anche di semplici residenti. Gli animali non sono protagonisti soltanto di sortite tra uliveti e vigneti, ma spesso scorrazzano liberamente anche in strada rischiando di provocare incidenti. Numerosi sono i sinistri da loro provocati e in qualche caso si sono registrati feriti molto gravi. L’Ente Parco prevede degli indennizzi, ma i fondi sono sempre esigui, così come i rimborsi erogati, insufficienti a coprire i danni.

All’iniziativa legata ai selecontrollori, il Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni ha affiancato la volontà della creazione di una filiera di carne di cinghiale, ma è doveroso andare con ordine. La tipologia di carne rientra nella categoria della selvaggina e come tale, per essere venduta, ha bisogno di superare controlli veterinari e ottenere certificazioni per entrate nei circuiti di vendita. La selvaggina per essere consumata deve essere trattata e trasformata in poco tempo, a causa dell’alto contenuto di ormoni delle specie selvatiche. La necessità di certificati, come è ovvio, implica l’ampliamento dei tempi tra impegni burocratici e valori bollati, con il rischio che la carne non sia più consumabile. Al fine di ovviare a queste problematiche, l’Ente guidato da Tommaso Pellegrino ha avviato l’iter per la creazione della filiera con aiuti concreti ai punti di vendita. Dovranno nascere anche dei laboratori ove trattare, entro poche dall’abbattimento, la carcassa con la presenza di medici veterinari e macellai, nonché con la possibilità di stoccare in modo corretto i residui di lavorazione. In questo modo, la carne di cinghiale può essere venduta in sicurezza, andando ad ovviare al fenomeno di vendita sottobanco del prodotto, potenzialmente nocivo per la salute. Tra i sindaci maggiormente agguerriti e in prima linea per fronteggiare l’emergenza, Mauro Inverso di Orria e Pino Palmieri di Roscigno. I due centri sono ubicati, rispettivamente, nel Cilento interno e negli Alburni, entrambi in montagna e avvolti da una natura pressoché incontaminata.

«I piccoli coltivatori sono in ginocchio e non possiamo rimanere a guardare – il pensiero di Inverso – frenare il proliferare di cinghiali deve essere una tra le priorità per investire sul futuro. La filiera può essere un modo per iniziare a risolvere la situazione, oltre che può portare entrate economiche alle famiglie».

Dello stesso avviso il primo cittadino roscignolo Palmieri: «Se vogliamo che i cilentani rimangano nel Cilento dobbiamo risolvere i problemi – dice – e quello dei cinghiali è tra i più importanti. Vendere la carne può essere un primo passo, ma tanto è ancora da fare. Chi ben comincia è a metà dell’opera, dice un vecchio adagio e con questa iniziativa possiamo dire di esserci riusciti. Ovviamente – conclude – dobbiamo continuare a lavorare e ad essere al fianco dei residenti».

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TAG:CilentoCilento Notiziecinghiali
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