Cilento

Moriva oggi Carlo Pavone, lo storico originario di Torchiara

Ecco il suo legame con il Cilento

Luisa Monaco

25 Gennaio 2024

Torchiara

Carlo Pavone, morì a Torchiara il 25 gennaio 1899. La famiglia Pavone fu un esempio di borghesia colta provinciale napoletana, caratterizzata dalla presenza di professionisti, proprietari, sacerdoti, spesso con solide vocazioni intellettuali.

La famiglia Pavone e il legame con il Cilento

Era radicata nel Cilento, uno dei territori maggiormente coinvolti nei conflitti dell’età rivoluzionaria e napoleonica, segnato sia dalla mobilitazione controrivoluzionaria dei vescovi e dei guerriglieri sanfedisti (1799), sia, di converso, da un forte sostegno di forze locali al successivo esperimento di modernizzazione del decennio francese.

Carlo e il fratello Angelo appartenevano a una generazione integrata nelle reti culturali europee (ne erano un esempio lo zio Giuseppe o il concittadino Agostino Magliani), ma furono protagonisti anche di una intensa battaglia politica, intrecciata con contrasti municipali, tensioni sociali, banditismo e un uso quasi quotidiano della violenza privata.

Negli anni della loro adolescenza nel Cilento si registrarono decine di interventi delle forze di sicurezza mirati a demolire le reti cospirative e a reprimere moti liberali, come quelli del 1828 e del 1837, che portarono all’arresto in entrambi i casi dello zio Domenico. All’inizio degli anni Quaranta, Carlo si recò a Napoli, come tutti i rampolli della borghesia provinciale.

La carriera di Carlo Pavone

Fece gli studi letterari alla scuola di Francesco De Sanctis e quelli giuridici con Roberto Savarese, vincendo poi il concorso per diventare giudice circondariale. Nella capitale si inserì in un’élite che, attraverso una decennale partecipazione alla lotta politica, aveva dato forma alla tradizione liberale meridionale. Il movimento era coordinato da Carlo Poerio, Francesco Paolo Bozzelli, Mariano D’Ayala e dai suoi conterranei Matteo De Augustiniis e Francesco Antonio Mazziotti.

Nel 1844 un tentativo di rivolta (che portò alla disastrosa spedizione dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera) era stato sgominato. Quando, quattro anni dopo, il 12 gennaio del 1848, iniziò la rivoluzione a Palermo, lo stesso gruppo decise l’insurrezione nel Cilento con l’obiettivo – fallito – di coinvolgere tutte le province napoletane.

Si rinnovò uno schema collaudato nelle rivolte precedenti: i notabili locali, come i Pavone, arruolarono amici, gregari, familiari e spesso vecchi militanti dei sommovimenti passati. Chiedevano la costituzione, ma non mancavano inediti appelli: i cilentani diedero vita a un ‘comando generale delle armi dell’indipendenza italiana’.

Al vertice c’erano Costabile Carducci, Leone Vinciprova, i fratelli Del Mercato e Magnoni, Carlo e Angelo Pavone. Tre colonne insurrezionali iniziarono a percorrere il Cilento. Una era guidata da Pavone: il suo ciclo operativo era un modello delle rivolte dell’epoca. La formazione entrava in un paese, abbatteva i simboli della monarchia, nominava un governo provvisorio, pretendeva un contributo dalla cassa comunale e poi continuava verso altri centri.

La composizione stessa della banda (professionisti, proprietari, artigiani, contadini) mostrava un conflitto civile di carattere spiccatamente politico-ideologico, trasversale alle fratture sociali e familiari del territorio, e capace di assorbirle. Gli avversari locali erano oggetto di vendette politiche e personali; ne furono vittime alcuni capi urbani, accusati di essere i delatori dei giustiziati del 1828, ma tutti riconobbero, nel successivo processo svoltosi nel 1852, il ruolo moderatore di Carlo Pavone.

La rivolta restò isolata e l’arrivo di poderose formazioni borboniche annunciò un’inevitabile sconfitta, impedita solo dalla concessione della costituzione. Poco tempo dopo il nuovo governo costituzionale favorì una amnistia di cui beneficiarono, fra gli altri, anche i Pavone. I liberali cilentani ottennero un discreto peso nella politica della capitale, il controllo dei comuni e della guardia nazionale, determinando l’elezione alla Camera napoletana delle loro figure di riferimento che vinsero in tutti i collegi locali.

La rivoluzione moltiplicò anche antiche e nuove tensioni, come l’atavico brigantaggio meridionale (i Pavone furono fra gli autori di un documento a favore di una decisa azione di repressione). La crisi del 15 maggio 1848, di cui furono protagonisti anche i cilentani molto presenti nella capitale, spezzò però il tentativo di accordo tra la monarchia e i costituzionali. Il movimento liberale si divise: alcuni confermarono un’opposizione legalitaria, i settori più radicali tentarono la via delle armi in Calabria e nel Cilento. Il distretto di Torchiara fu, nel secondo caso, il centro dell’insurrezione. Il comando operativo fu composto da Carlo Pavone, Antonio Curcio, Diego De Mattia e Filadelfo Sodano, quadri storici della rivoluzione salernitana. Ritentarono la marcia su Vallo senza successo.

La reazione borbonica fu efficace. I calabresi furono sconfitti, i cilentani spazzati via: Carducci fu assassinato da una squadriglia realista, Curcio fu ucciso in uno scontro con la gendarmeria, De Angelis e Sodano furono arrestati (il secondo morì in carcere), De Mattia fuggì a Malta. I Pavone cercarono di nascondersi, utilizzando le reti di solidarietà locali. Angelo fu scoperto dopo un anno: processato e condannato, uscì di prigione nel 1854 per restare al domicilio forzoso fino al 1860. Nel luglio del 1849 anche Carlo fu catturato. Fece l’esperienza dei processi politici che marcarono la storia del Regno delle Due Sicilie.

Il dibattimento per i moti del Cilento (insieme a quelli per il 15 maggio e per la setta dell’Unità italiana) fu tra i più importanti. Furono indagate oltre tremila persone, quattrocento furono sottoposte a giudizio, in gran parte condannate. A Carlo Pavone fu comminata la pena capitale, commutata in venticinque anni di ferri; a Nisida e poi a Procida condivise un’altra esperienza fondante del liberalismo meridionale, il carcere politico. Nel frattempo, il suo distretto restò uno dei centri della cospirazione.

Nel settembre 1853 fu scoperto in corrispondenza con Michele Magnoni, tra gli organizzatori della futura spedizione di Sapri. Nel 1858 le pressioni internazionali resero complicata la gestione dei prigionieri. Pavone fu tra coloro che accettarono la deportazione nel nuovo continente, insieme a personaggi come Poerio, Giuseppe Pica, Emilio Petruccelli, Nicola Nisco. L’esito del viaggio fu opposto a quello immaginato da Ferdinando II. Alcuni familiari dei prigionieri riuscirono a imbarcarsi a Cadice sulla nave americana che li aveva accolti per l’ultima parte del viaggio. Poi tutti insieme convinsero il comandante a cambiare rotta, lasciandoli in Irlanda, e da lì raggiunsero Londra, ricevendo un’entusiasmante accoglienza dalla stampa e dalla popolazione.

L’esilio, l’ultima esperienza che mancava al curriculum rivoluzionario di Pavone, fu molto breve. Si trovava in Piemonte quando, nell’estate del 1860, precipitò la crisi del Regno meridionale. Il 9 luglio, dopo la concessione della costituzione da parte di Francesco II, egli si imbarcò per Napoli, insieme a tanti altri esuli. Ancora una volta, la sua biografia testimoniava il ruolo del notabilato provinciale nella lotta politica napoletana. Furono quei quadri patriottici a garantire il cambio di regime nelle istituzioni meridionali. Pavone prese parte alla nuova insurrezione cilentana dell’agosto 1860, poi assunse la segreteria generale del governatorato garibaldino di Salerno.

Istituita la Luogotenenza, si dimise per rientrare in magistratura. Nominato giudice circondariale nel suo Cilento, partecipò con determinazione all’ultimo atto della crisi napoletana, la repressione della resistenza legittimista e del brigantaggio. Come i suoi coetanei del 1848, Pavone conosceva bene il conflitto civile meridionale, l’intreccio tra tensioni sociali e scontri ideologici, lotte fra clan e odi familiari.

Cercò di impedire abusi e prepotenze dei vincitori, scagionando persone ingiustamente accusate, e nello stesso tempo contrastò sul campo le azioni della guerriglia legittimista e delle bande criminali. Riuscì a sopravvivere a un attentato – perpetrato a Vatolla nel settembre del 1861 – e si impegnò in prima persona contro la più importante formazione borbonica locale, quella partita da Roma e sbarcata nel Cilento al comando dell’avvocato Giuseppe Tardio.

La sua carriera continuò come giudice istruttore a Teramo e a Santa Maria Capua Vetere, poi come questore a Caltanissetta, in anni segnati nuovamente da un duro scontro politico. In ogni caso, come buona parte dei quadri della rivoluzione, continuò con successo la sua ascesa nelle istituzioni, sostenuto da Magliani e De Sanctis, assumendo la carica di presidente dei tribunali di Caltanissetta e di Lanciano. Diventò poi anche consigliere della Corte d’appello di Potenza e, infine, di Roma. Svolse un ruolo attivo e si impegnò per la riforma della selezione e dell’organizzazione del personale giudiziario, pubblicando alcuni discorsi su questi temi.

Come tutta la sua generazione, Pavone si misurò anche con la battaglia politica e intellettuale, ma con minore successo. Scrisse drammi e alcune pubblicazioni storiche occasionali. Legato agli ambienti della Destra storica, si impegnò su temi come il trasferimento della capitale o il corso forzoso, ma non riuscì mai a vincere le sue personali battaglie elettorali, risultando sempre sconfitto nel suo collegio cilentano (appannaggio dei radicali, come gli altri del territorio).

I suoi ultimi anni di vita

Negli ultimi anni di vita, analogamente a quasi tutti i suoi coetanei, si impegnò nella sacralizzazione della propria epopea, sia attraverso gli scritti sia nelle molteplici istituzioni di veterani, come quella per i danneggiati politici napoletani. Morì a Torchiara il 25 gennaio 1899. La famiglia Pavone rappresentò un esempio d’integrazione della borghesia meridionale nelle istituzioni unitarie. Il nipote, Andrea Torre, fu un esponente importante del liberalismo e soprattutto del giornalismo, in prima fila in battaglie come il Congresso per le nazionalità del 1918.

Il figlio di Carlo, Giuseppe, ebbe ruoli importanti nell’esercito; raggiunse il grado di generale di divisione e, poco prima di morire, nel 1943, fu protagonista di un tentativo di creare dei reparti impegnati a fianco degli alleati contro i tedeschi. Tra i suoi eredi c’è anche uno dei maggiori storici italiani del Novecento, Claudio Pavone.

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