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Intervista al Cavaliere Domenico De Rosa: “L’Europa rischia di diventare un museo industriale”

Riflessione critica sulle politiche dell’Unione Europea alla luce della crisi dell’automotive e della siderurgia

A cura di Redazione Infocilento
Pubblicato il 6 Giugno 2025
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De Rosa

Mentre l’Unione Europea prosegue nel percorso della transizione ecologica, due pilastri storici dell’economia continentale — l’automotive e la siderurgia — affrontano una crisi profonda. Vincoli normativi sempre più stringenti, carenza di strategie industriali efficaci e una concorrenza internazionale agguerrita stanno mettendo a rischio interi comparti produttivi. In questo contesto, abbiamo incontrato il Cavaliere Domenico De Rosa, CEO del gruppo SMET, azienda leader nella logistica.

Cavaliere De Rosa, qual è la sua opinione sulle attuali politiche industriali dell’Unione Europea, in particolare nei settori automotive e siderurgico?

Credo che l’Unione Europea abbia imboccato un sentiero pericolosamente tecnocratico. Si sta tentando di governare la complessità dell’economia reale come fosse un algoritmo da ottimizzare, ma l’economia non è una formula astratta. Le gravi crisi che oggi colpiscono l’automotive e la siderurgia sono il risultato più evidente di questo approccio scollegato dalla realtà industriale, sociale e geopolitica.

Partiamo dal settore automobilistico: cosa non ha funzionato?

Il Green Deal, in particolare il bando dei motori endotermici dal 2035, ha imposto una transizione accelerata verso l’elettrico, senza una vera strategia industriale a supporto. Abbiamo lasciato le nostre case automobilistiche storiche — come Volkswagen, Renault, Peugeot e Fiat — a confrontarsi da sole con la concorrenza cinese, sostenuta dallo Stato, e con la durezza pragmatica dell’industria americana. In Europa imponiamo limiti sempre più stringenti, come l’Euro 7 o le quote minime di veicoli elettrici, mentre la Cina invade il mercato con auto low-cost e gli Stati Uniti proteggono la loro manifattura con incentivi. Il risultato? Chiudono stabilimenti, si perdono posti di lavoro, e si sacrifica know-how industriale in nome di una transizione normativa astratta.

E per quanto riguarda la siderurgia?

La siderurgia è forse il caso più emblematico di scollamento tra obiettivi politici e strumenti reali. Parliamo di un settore ad altissima intensità energetica, oggi schiacciato da politiche miopi sul piano energetico, da una vera inflazione normativa — penso al sistema ETS, al CBAM, ai limiti ambientali crescenti — e da una totale mancanza di visione strategica. L’acciaio europeo è sempre meno competitivo, mentre impianti storici in Italia, Germania e Francia si dibattono tra piani di riconversione irrealistici e la mancanza di capitali. Si parla di idrogeno verde, di altiforni elettrici, ma sono tecnologie non ancora mature o non scalabili in tempi brevi.

Secondo lei, qual è l’errore di fondo dell’approccio europeo?

L’Unione Europea sembra comportarsi come un legislatore neutrale, disinteressato alla costruzione di una vera politica industriale. Ma l’industria europea si sta disgregando sotto il peso di norme pensate più per accontentare un’ideologia climatica urbana che per affrontare la competizione globale.

Quindi non è contrario alla transizione ecologica?

Assolutamente no. Nessuno mette in discussione la necessità di innovare e di ridurre le emissioni. Ma serve una visione realista, che accompagni il cambiamento, invece di imporlo dall’alto. Bisogna sostenere la trasformazione industriale con investimenti concreti, protezioni temporanee, accordi commerciali intelligenti e, soprattutto, con un dialogo autentico con le imprese.

Se dovesse lanciare un messaggio alla classe dirigente europea?

Una domanda semplice, ma decisiva: che senso ha salvare il clima, se nel frattempo desertifichiamo l’Europa di fabbriche, lavoratori e competenze? Senza acciaio e senza automobili, non saremo una potenza verde, ma solo un museo della civiltà industriale.

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