Attualità

Sala Consilina: un ex detenuto racconta la sua esperienza nel carcere di via Gioberti

Erminio Cioffi

21 Giugno 2018

Sala Consilina – “Spazi angusti, celle umide, acqua fredda e se uno prendeva l’influenza la prendevamo tutti”. Inizia con queste parole il racconto di Nicola, un ex detenuto, sulle condizioni di vita all’interno della casa circondariale di via Gioberti a Sala Consilina, chiusa nel 2015 e che ora, dopo una sentenza del Consiglio di Stato potrebbe essere riaperta al termine della conferenza dei servizi in corso a Roma presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nicola è un nome di fantasia, è residente in un piccolo comune del Vallo di Diano ed ha trascorso 18 mesi all’interno del carcere di Sala Consilina, è stato uno degli ultimi detenuti ad occupare una delle celle della struttura prima della sua soppressione.

“Ho accettato di raccontare la mia esperienza – spiega l’ex detenuto – a patto che non si usi il mio vero nome perché in questi anni sono riuscito a rifarmi una vita e ho il timore che i pregiudizi della gente possano crearmi dei problemi”. Nicola inizia il suo racconto dal giorno in cui ha messo piede nel carcere. “Inizialmente sapevo che mi avrebbero portato ad Eboli – racconta – poi però mi sono ritrovato a Sala Consilina e mi hanno messo nella cella numero 1 che è quella più grande. Le celle in tutto sono sei ed una di queste è riservata ai due cuochi. Nella mia, grande circa 35 metri quadrati potevano starci fino ad un massimo di 12 detenuti, non c’erano sgabelli, l’umidità era ovunque ed il riscaldamento funzionava solo per qualche ora durante la giornata. Ricordo che abbiamo anche raggiunto il numero di 42 detenuti in tutto il carcere e quattro erano costretti a dormire per terra”. Saper cucinare a Sala era un vantaggio per chi era detenuto perché poteva godere di alcuni privilegi.

“Al carcere di Sant’Angelo dei Lombardi – continua Nicola – avevo fatto un corso per trattare gli alimenti e questo mi ha dato la possibilità di poter fare il cuoco a Sala, ed infatti dopo 15 giorni sono stato trasferito nella cella numero 6, grande circa 15 metri, che condividevo con un altro cuoco”. Qualche problema c’era anche per la cura dell’igiene personale visto che “su 4 docce ne funzionavano solo 2 con due boiler da 120 litri quindi è facile immaginare che su 30 detenuti 10 facevano la doccia calda e 20 fredda. Invece nelle celle l’acqua che usciva dal rubinetto era sempre fredda”. Nicola per due volte ha salvato altri due detenuti che stavano tentando il suicidio.

“In due circostanze diverse, mentre portavo i pasti nelle celle ho visto una volta un ragazzo del Togo ed un’altra volta un italiano che stavano per impiccarsi, ho chiamato il secondino che ha aperto la cella e siamo riusciti ad evitare il peggio. Ai colloqui eravamo ammassati come bestie. Una volta, per scherzo, un detenuto chiuse uno dei secondini in una cella. L’unica cosa positiva era il rapporto con gli agenti delle Polizia Penitenziaria, tutte brave persone e molto umane”. Il racconto di Nicola è utile affinchè, qualora il carcere dovesse essere riaperto, si possa fare in modo che le condizioni di detenzione possano diventare decenti intervenendo su quelle cose che non funzionano così da rendere umana la funzione rieducativa della pena.

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