La Corte Suprema di Cassazione, Sesta Sezione Penale, ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna per l’ex Sindaco di Ascea, Pietro D’Angiolillo, nel procedimento che lo vedeva imputato per il reato di rifiuto di atti d’ufficio (articolo 328, comma 1, del codice penale). La decisione, contenuta nella sentenza n. 33536 del 10 ottobre 2025, è arrivata per intervenuta prescrizione del reato.
In primo grado, la Corte d’appello di Salerno aveva assolto D’Angiolillo dai reati di cui agli articoli 674 del codice penale (relativo all’impianto di Mandia) e 181-bis del d.lgs. n. 42 del 2004 (alterazione di beni pubblici). Tuttavia, aveva rideterminato in otto mesi di reclusione la pena inflitta per il residuo delitto di omissione d’atti d’ufficio.
Tale accusa (capo F) riguardava il rifiuto, nonostante secondo i giudici fosse a conoscenza dell’assenza di depurazione delle acque e delle fogne comunali, di compiere un atto del suo ufficio che, per ragioni di sanità, avrebbe dovuto essere eseguito senza ritardo.
Il procedimento verteva, in particolare, sull’omessa adozione di provvedimenti a tutela della salute pubblica e, nello specifico, sulla mancata adozione di un idoneo trattamento di depurazione delle acque reflue fognarie.
L’imputato, tramite il suo legale, l’Avvocato Demetrio Fenucciu, aveva presentato ricorso in Cassazione, sollevando, tra gli altri, due motivi principali.
Il primo motivo denunciava la violazione di legge, sostenendo che l’obbligo di intervento non gravasse sul Sindaco, in quanto la competenza in materia idrica integrata, che comprende fognatura e depurazione, era stata trasferita all’Autorità d’Ambito Sele (oggi Ente idrico campano) e affidata a CONSAC. Si sottolineava inoltre che l’emissione di un’ordinanza di necessità e urgenza non era giustificata e che gli interventi necessari erano troppo onerosi per un potere extra ordinem.
Il secondo motivo verteva sul vizio di motivazione relativo al dolo , contestando la prova della conoscenza del malfunzionamento della depurazione da parte dell’imputato. A riprova, veniva citata l’assenza dell’elemento soggettivo, dimostrata dall’annullamento da parte del Tribunale di Vallo della Lucania di due ordinanze di ingiunzione per difetto di comunicazione degli esiti delle analisi al Comune e al Sindaco.
La Cassazione ha rilevato come, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l’obbligo di attivarsi per il depuratore della frazione Catona fosse rimasto in capo al Comune, in quanto CONSAC si era rifiutata di prenderlo in carico a causa delle sue condizioni gravissime, diversamente da quanto fatto per l’impianto di Mandia.
Tuttavia, la Corte ha sottolineato che la sentenza impugnata non aveva chiarito in modo compiuto gli elementi costitutivi del reato di rifiuto di atti d’ufficio. In particolare, non si evincevano le ragioni specifiche dell’indifferibilità dell’intervento del Sindaco, né in che modo l’omissione avesse messo in pericolo le condizioni di igiene e sanità, la cui messa in pericolo era stata meramente asserita.
Nonostante queste lacune, che avrebbero meritato l’annullamento con rinvio per ulteriori chiarimenti, la Cassazione ha proceduto diversamente, per l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione.
Rammentando che il rifiuto di atti d’ufficio è un reato istantaneo e che l’imputato era a conoscenza del disservizio sin dal 2015, la Corte ha collocato il tempus commissi delicti (momento di consumazione del reato) al massimo nell’anno 2015. Il termine prescrizionale massimo, pari a sette anni e mezzo, è risultato decorso.
Di conseguenza, la Corte ha disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, dichiarando il reato estinto per prescrizione.