Si è conclusa intorno alla mezzanotte di ieri la camera di consiglio del Tribunale di Lagonegro per il processo di primo grado denominato “Febbre dell’oro nero”, inchiesta avviata nell’aprile 2021 grazie a un’operazione congiunta di Guardia di Finanza e Carabinieri. Al centro delle indagini, un vasto sistema di frode fiscale e contrabbando di idrocarburi che coinvolgeva imprenditori e soggetti legati a organizzazioni criminali attive tra Caserta, il Vallo di Diano e la Puglia.
Il processo si è concluso con 34 condanne, mentre è caduta l’accusa di associazione mafiosa, una delle ipotesi di reato più gravi avanzate inizialmente. Numerosi anche gli assolti, tra cui diversi acquirenti di gasolio illegale, considerati “semplici clienti” e non parte attiva del sistema illecito. Il giudice ha disposto la confisca di beni per un valore complessivo di 14,4 milioni di euro, comprendenti somme di denaro, depositi commerciali, impianti di distribuzione e automezzi, già oggetto di sequestro preventivo nel 2021. Le accuse principali hanno riguardato frodi IVA e accise, riciclaggio, autoriciclaggio, intestazioni fittizie e impiego di capitali illeciti.
Secondo la Procura, la rete criminale era alimentata da fondi provenienti dallo spaccio e dall’estorsione, gestiti da esponenti dei casalesi e della mafia tarantina, con base operativa anche nel Vallo di Diano. Tra i principali imputati, Raffaele Diana e suo figlio Giuseppe, entrambi condannati a 9 anni, insieme a un imprenditore pollese del settore carburanti, il cui fatturato è cresciuto in pochi anni da zero a oltre 15 milioni di euro. Nonostante la caduta dell’aggravante mafiosa, il caso resta emblematico del legame tra economia e criminalità organizzata. Attesi ora i ricorsi in Appello, dove proprio la questione della sussistenza del vincolo mafioso tornerà al centro del dibattito giudiziario.