Il commento: ‘Il sindaco pescatore’, la retorica inutile della fiction Rai

Redazione Infocilento
Sergio Castellitto ne 'Il Sindaco Pescatore'

“Tener viva la memoria di uomini esemplari come il sindaco pescatore è giusto e anche doveroso. Non altrettanto è farlo con tale approssimazione di intenti e di stile”

C’è un modo diverso di ricordare una vita, riferirne le battaglie, le passioni, le ombre e la fine, da quello proposto ieri sera su Raiuno con Il sindaco pescatore? E’ davvero solo con l’agiografia che il servizio pubblico sa raccontare le storie degli italiani, trasformarle in una sceneggiatura da prima serata che non sia solo un facile insieme di caricature?
Già il promo del film-tv, trasmesso nei giorni addietro dalle reti Rai, lasciava preannunciare quello che poi è accaduto, con quel “però nel rispetto della legge” spia di una povertà creativa disarmante (eppure i testi erano di Carlo Lucarelli). Ma la visione dell’intero prodotto non ha tradito i pregiudizi iniziali, di cui si era fatto interprete l’ex presidente del Parco Giuseppe Tarallo. Un film molto povero, macchiettistico nel mostrare sia il bene che il male, privo di certezze a cui attingere e quindi obbligato a crearle con il dire-non dire, con il ricorso ai più disparati luoghi comuni. Ed ecco allora l’impiegata fannullona che arriva in Comune addirittura alle 11 (!), il candidato sfidante con la faccia da caporale che inneggia al cemento applaudito da una folla di inetti; il vecchio signorotto di bianco vestito che si aggira minaccioso e beve vino in barca coi suoi scagnozzi; l’ingenuo costruttore che si reca dal neo eletto Vassallo con una busta piena di soldi, salvo vederseli piovere addosso come coriandoli in una scena tragicomica. E poi il saggio avvocato con la barba bianca e le idee salvifiche (perché ogni eroe delle favole vuole il suo aiutante Merlino) e la ruspa che abbatte prima gli abusi di casa propria e poi gli altri.
Per costruire la nobiltà del protagonista si colora di grigio tutto il resto, confondendo le macchie del Cilento, che pure ci sono e ci sono state, con l’indefinito armamento delle storture di Napoli e dintorni, da cui si raccolgono, per non sbagliare, finanche le musiche e gli accenti (fatta salva una sola battuta in 2 ore di film, quella di Umberto Anaclerico). Il tutto infarcito dall’epica intensità dell’interpretazione di Castellitto (che è romano), impegnato in dialoghi quasi stucchevoli e costretto, nell’ansia di rappresentare la schiettezza paesana, in un linguaggio persino più umile di quello del vero Vassallo.
Tener viva la memoria di uomini esemplari come il sindaco pescatore è giusto e anche doveroso. Non altrettanto è farlo con tale approssimazione di intenti e di stile, soprattutto quando i veri colpevoli di una così drammatica vicenda non sono ancora stati identificati con certezza. Se è vero che la fiction non è giornalismo né tribunale, è pur vero che non dovrebbe sostituirsi a questi imbastendo ricostruzioni precoci e superficiali.
Il sacrificio di Angelo Vassallo, così come le ferite della nostra terra, meritano la limpidezza liberatoria della verità e non la stridula retorica di un’inutile poesia.

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