1886: da Rutino a Buenos Aires, ecco la storia dell’artista Germano Bianco

Gerardo Severino

Si parla, molto spesso, nel nostro Paese, della c.d. “fuga dei cervelli”, intendendo per tale l’emigrazione verso altri Stati del mondo di persone di scienza, di cultura o comunque di alta specializzazione professionale e, quindi, di talento, i quali, pur formatesi nella Madrepatria proprio in questa non riescono ad emergere o ad inserirsi.

Il fenomeno, contrariamente a quanto si possa pensare, non è nato ieri e nemmeno l’altro ieri, se per questo, essendo, infatti, riconducibile già ai primi anni che seguirono l’unificazione nazionale del 1861. La “fuga dei cervelli” riguardò l’Italia post-unitaria, sia con riferimento al massiccio trasferimento di mano d’opera e di “cervelli” dal Meridione verso il Nord Italia, sia al fenomeno migratorio che, a partire dal 1870 in poi, avrebbe interessato il Continente Americano, che proprio dai “cervelli” italiani se ne sarebbe avvantaggiato, grazie alle belle arti e alle professioni.

In tale ambito un ruolo decisamente importante fu svolto dalla Repubblica Argentina, Nazione che forse più di altre in America Latina ebbe modo inizialmente di “selezionare”, fra le migliaia di emigranti giunti dalla Penisola italiana, oltre ad affermati uomini di cultura, ai quali furono aperte cariche pubbliche e carriere universitarie, anche il fior fiore di ingegneri, architetti, artisti e abilissimi artigiani, i quali avrebbero poi avuto un ruolo determinante nella realizzazione di avveniristici progetti infrastrutturali, ma anche di non poche opere d’arte.

Ebbene, se le scelta argentina, di attirare in quella Nazione persone brillanti provenienti da tutto il mondo, si rivelò un fattore di arricchimento culturale e professionale, proprio perché la ricerca non conosce frontiere, per l’Italia si rivelò, al contrario, una vera e propria iattura.

Un ostacolo al progresso che, in verità, avrebbe colpito principalmente proprio il martoriato Meridione, già di per sé “cannibalizzato” sin dallo stesso 1861, per poi essere tacciato al cospetto della storia di aver vissuto in una sorta di arretratezza generale: un giudizio che, in verità, serviva solo a giustificare la cacciata dei Borbone dal Regno delle Due Sicilie.

Dal Cilento a Buenos Aires (1869 – 1886). Tra i “cervelli in fuga” dal Meridione d’Italia – lo abbiamo più volte ricordato su questo magazine – ci furono anche grandi artisti, uomini che nella nostra estesa Provincia di Salerno, Cilento in primis, avevano appreso i segreti dei vari campi artistici o comunque professionali, dalla musica alla pittura, dalla scultura alle varie forme di artigianato.

Furono veramente in tanti – anche questo è stato scritto – gli artisti che abbandonarono la nostra Terra, in cerca di fortuna nella lontanissima Argentina, una fortuna che non tardò a venire, sebbene dopo anni di sacrifici, di gavetta e, soprattutto, di paziente lavoro “sotto padrone”.

È, questa, in estrema sintesi quella che fu la vita del Maestro Germano Bianco, nato a Rutino il 7 aprile 1869, figlio di Angelo e di Filomena Longo, il quale proprio in Patria si era formato nell’arte dello “scalpellino”, una professione antica, spesso tramandata di padre in figlio, ma che gli avrebbe consentito, una volta raggiunte le rive del Rio de la Plata, di diventare uno dei principali artisti del marmo, peraltro titolare di uno dei più celebri laboratori di Buenos Aires, ma soprattutto colui che avrebbe “firmato” alcune delle più straordinarie opere in marmo che ancora oggi sono il vanto della Capitale porteña, come cercherò di documentare attraverso queste modeste pagine.

L’avventura porteña di German Bianco (1886 – 1943). Nel 1886, Germano Bianco, poco più che diciassettenne, decise di lasciare Rutino, attratto anch’egli dalla pubblicità che gli “Agenti dell’Emigrazione” andavano diffondendo per tutta la Provincia di Salerno, ma soprattutto nel Cilento, sempre più alle prese con una povertà diffusa.

L’Argentina, che proprio in quegli anni aveva varato un programma di trasformazione del Paese, e non solo sul piano agricolo, aveva bisogno di mano d’opera qualificata, utile per poter essere impiegata nei vari campi dell’industria, dell’edilizia, sia istituzionale che popolare, così come nell’ammodernamento delle strutture ferroviarie, portuali e così via. A differenza di quanto sostennero Dionisio Petriella e Sara Sosa Miatello nel loro celebre libro “Diccionario Biografico Italo-Argentino” (Buenos Aires, Asociación Dante Alighieri, 1976, p. 71), il ribattezzato German Bianco non si formò affatto a Buenos Aires in quella che fu la sua missione artistica, tanto da essere assunto come “aprendiz marmolero”.

Il giovane di Rutino era stato, infatti, classificato “scalpellino” già prima di partire da Napoli alla volta dell’Argentina, e di questo se ne è avuta riprova dalle “liste di leva” custodite presso l’Archivio di Stato di Salerno, ove viene per l’appunto citata tale professione accanto alle sue generalità. German, infatti, si era dedicato sin da fanciullo all’arte della lavorazione dei marmi e specialmente alla c.d. “ornamentazione artistica scultorica”.

È vera, invece, la notizia secondo la quale il giovane italiano si fosse dato da fare sin dai primi giorni di “vita argentina”, andando a lavorare in una officina di marmo, la stessa ove si sarebbe presto fatto notare proprio come un vero e raro artista.

La bellissima Capitale federale proprio in quegli anni viveva nel pieno rigoglio di uno sfrenato sviluppo edilizio, tanto è vero che risalgono a quell’epoca molte delle splendide costruzioni ancora oggi in piedi e che racchiudono interni veramente regali: ville e palazzi che a quei tempi rappresentavano l’orgoglio delle famiglie patrizie argentine.

Lavorando giorno e notte, pur di non tornare a mani vuote in Italia, German Bianco mise da parte un buon gruzzolo di pesos, grazie al quale, nel 1895 riuscì finalmente a mettersi in proprio, dando così vita ad una prima “Taller” (officina), per la quale investì inizialmente un capitale di 3.000 pesos argentini.

Dotato di una ferrea volontà, col fermo intento di voler riuscire ad ogni costo, German Bianco fu costretto a lottare contro mille difficoltà. Alla fine, però, il successo gli arrise, tanto che già nel 1901 ebbe la possibilità di ingrandire l’attività e di trasferire l’officina/laboratorio in Calle Entre Rios.

Di lì a qualche anno ordinò in Europa la prima macchina per lavorare il marmo, la quale giunse a Buenos Aires nel corso del 1907 e alla quale ne aggiunse un’altra poco dopo. Con tali macchine la sua industria acquistò maggiore importanza, tanto da emergere tra le principali operanti nel settore edilizio e della marmistica ornamentale.

Non solo, ma German Bianco avrebbe reso un grande servizio all’economia nazionale, facendo comprendere ai vari committenti che anche il marmo argentino avrebbe potuto avere “pari dignità” rispetto ai marmi importanti, peraltro al alto costo, dall’Europa. Intensificando, quindi, lo sfruttamento dei marmi argentini, egli realizzò con essi importanti opere, come il rivestimento del Palazzo del Congresso, la base del monumento al Generale Carlos Mario de Alvear, la facciata degli edifici del Banco della Provincia di Buenos Aires, del Ministero delle Finanze della Nazione e dei Depositi Fiscali di Petrolio, tanto per citare le opere più conosciute.

Ancor prima dello scoppio della “Grande Guerra”, per la quale il Maestro Bianco avrebbe contribuito, elargendo una cospicua offerta per lo sforzo bellico della Madrepatria (Cfr. Gli Italiani nel Sud America ed il loro contributo alla guerra 1915 – 1918, Buenos Aires, Arrigoni e Barbieri Editori, 1922, p. 689), l’ormai avviato laboratorio necessitò di una radicale trasformazione, vista ovviamente in chiave industriale.

L’industria per la produzione di marmi pregiati “German Bianco & Figli” ebbe, quindi, sede sempre nella stessa Buenos Aires, ma nella centralissima Avenida La Plata 1629-35. Essa progredì sempre di più, tanto che nel 1922 disponeva di un capitale di 200.000 pesos. Che German Bianco fosse divenuto un industriale a tutto tondo lo dimostra anche la stessa impostazione che egli volle dare all’azienda di famiglia. Sotto l’abile guida del proprietario, lo Stabilimento seppe formare, infatti, un vero e proprio corpo di maestranze specializzate, molte delle quali provenienti dall’Italia, la vecchia Madrepatria alla quale il fondatore non mancò mai di legare la sua stessa arte.

Lo Stabilimento industriale messo in piedi da German Bianco s’ingrandì a tal punto che necessitò di una suddivisione dei compiti nell’ambito della stessa famiglia. Mentre il figlio più piccolo, Giovanni, dimostratosi un valente tecnico, assurse alla carica di Direttore dello Stabilimento, quale Amministratore Generale fu, invece, designato il primogenito, il Dottor Angelo Bianco.

I marmi e le opere scultoree che uscivano dallo “Stabilimento Bianco” si distinguevano da quelli prodotti da altre aziende, soprattutto per la loro perfezione e bellezza, tanto da essere molto apprezzati e richiesti sia dagli architetti che dai costruttori in generale, i quali riconoscevano nella Segheria di German Bianco i meriti di una perfetta esecuzione, ma soprattutto l’artistica e, per certi versi maniacale, impronta dell’ormai maturo “scalpellino” di Rutino.

Del resto, sin dai primi momenti di vita della propria azienda, il Maestro Bianco si era avvicinato, ovviamente dal punto di vista artistico, ai modelli italiani, che eseguiva ad occhi chiusi, forte delle sue primordiali conoscenze. In realtà, nel corso degli anni, egli avrebbe subito volontariamente una sorte di metamorfosi artistica, la quale gli avrebbe consentito di studiare e di avvicinarsi ai modelli e ai costumi nazionali argentini, dimostrando così di saper fondere, in una perfetta armonia, la bellezza dello stile italiano con il folklore imperante nella Repubblica Argentina.

Nel tempo l’azienda, grazie all’ingegnosità dei figli di German, estese le attività imprenditoriali anche nel settore della falegnameria, ove puree non difettava il genio italico. Malgrado i molti anni di lavoro e la pratica, l’ormai anziano industriale del marmo originario del Cilento non abbandonò per un attimo il timone di quella nave che aveva varato nel lontanissimo 1895.

Seguì, infatti, i suoi figli nella gestione dello Stabilimento praticamente sino alla morte. Ciò, peraltro, mantenendosi informato anche riguardo ai nuovi modelli artistici e ai motivi ornamentali che i Paesi più progrediti in materia architettonica continuamente lanciavano sul mercato, anche e soprattutto allo scopo di soddisfare le esigenze – talvolta anche le più stravaganti – che avrebbero caratterizzato quel settore sino allo scoppio della 2^ guerra mondiale.

E fu proprio nel corso di quell’immane tragedia per il mondo intero che il vecchio “scalpellino” del Cilento si sarebbe spento, all’età di 74 anni, ovviamente in quella stessa Buenos Aires che lo aveva amorevolmente accolto circa sessant’anni prima. Correva l’anno 1943 e German Bianco non avrebbe avuto la gioia di esaudire il suo vecchio desiderio: quello di poter tornare nella sua amata Terra natia per un ultimo saluto, ma anche quello di assistere al c.d. “salto di qualità” dell’Impresa.

Fu, infatti, appena l’anno dopo la morte di German che l’azienda chiese ed ottenne dal Governo Argentino la licenza per la produzione di velivoli e la riparazione degli aerei, un settore completamente nuovo, almeno per chi aveva sin lì operato nel campo dell’arte o comunque dell’edilizia.

Concludo il presente saggio evidenziando come nella seconda metà degli anni ’50 la “German Bianco SA” stabilì persino una fortunata e proficua collaborazione con la italianissima “Aeronautica Macchi”, la quale, nel 1959, grazie all’infaticabile lavoro di Arnaldo Bianco, un vero pioniere del campo, avrebbe portato alla realizzazione del famoso “MB.308”, un fortunato monomotore da turismo e addestramento, meglio noto tra gli addetti ai lavori con il nomignolo di “macchino”.

Ma questa è, come al solito, un’altra storia…!

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