Foto | C’era una volta il Carnevale cilentano

Ernesto Apicella

Ieri, 17 gennaio, ricorrenza di S. Antonio Abate, è terminato il ciclo natalizio ed è subentrato il ciclo carnevalesco. Anticamente, con i fuochi della “focara” di Sant’Antuono (mascari e suoni) e il suono della “tofa” si annunciava: Trase Carnuluvaro, inizia il Carnevale.

Tutto il periodo era caratterizzato da divertimenti, a base di gruppi mascherati e da feste folkloristiche con carri allegorici. Per il mondo dei ragazzi era l’occasione più bella per potersi divertire aggregandosi a gruppi di coetanei o di adulti. Ogni ragazzo per potersi inserire nel gruppo era costretto a fornirsi di uno strumento musicale, quale il “putipù”, il “triccoballacco” o “scetavaiasse”, oltre al vestito di Pulcinella o di qualche altra maschera.

Per la serata finale del Martedì Grasso, giorno antecedente il rito penitenziale delle Ceneri, si svolgeva, appena fatto buio, il rito del “Clavone”, una specie di augurio da fare a tutti i parenti ed amici, con una pesante “clava” ricavata da una radice di erica e poi, con tale strumento, si bussava sui portali.

Dopo i rituali auguri, l’interessato era introdotto in casa e accolto con dolci e vino squisito. Questa meravigliosa tradizione ancora dura in qualche paese del Cilento, dove le persone usano offrire una cena a base di fusilli e carne di castrato.

Il Carnevale nel Cilento, anche se realizzato con le povere cose dei contadini, era molto sentito. I rituali erano sempre gli stessi tramandati da padre in figlio. I ragazzi preparavano, la settimana precedente il Martedì Grasso, un pupazzo di paglia (Carnuluvaro), lo vestivano di nero e come pancia utilizzavano un’otre, che collegavano con un tubo alla bocca, dove inserivano un imbuto.

I “mascari”, vestiti di stracci e con il viso ben coperto, con “Carnuluvaro” disteso su una scala, giravano tutto il paese, bussando ad ogni casa: “Sausicchia o pegno?”. E quindi via a nascondere sotto gli abiti salsicce, soppressate, fichi secchi, mentre il vino finiva nell’otre.

A sera inoltrata, tra canti e balli, grande abbuffata generale. Il Martedì Grasso tutto il paese partecipava al rituale della morte di “Carnuluvaro”. Al centro della piazza si preparava il falò. I ragazzi vestiti da “mascari” e, per assenza di ragazze, ricoprivano anche il ruolo di “femmine”.

Le maschere più importanti erano: “la sposa” (Quaresima), “il prete”, “il diavolo” e “il gendarme”. Il pomeriggio iniziava la sfilata per le strade del paese con balli e scherzi per tutti. La sfilata era preceduta dal suono della “tofa” che dirigeva una improvvisata banda formata da chitarre, mandolini, trombe, organetti, caccavelle etc…

Il pupazzo di “Carnuluvaro” disteso sulla scala precedeva “la sposa” (Quaresima), accompagnata da uno stuolo di “femmine” e “mascari” che, tra grida e finti pianti, ballavano e scherzavano. Al calare della notte, svuotata la “pancia” di “Carnuluvaro”, il pupazzo veniva legato ad un palo ed issato sul falò.

Un brindisi “funebre” generale, l’incalzare della musica, le grida e i pianti, erano i segnali per l’accensione del falò. Al termine del rituale ogni contadino prendeva un pugno di cenere e il giorno successivo lo disperdeva nel suo campo, come atto propiziatorio per un buon raccolto. Con la morte di “Carnuluvaro” si rigenerava la vita nei campi.

(Tratto dal libro di Ernesto Apicella: “La Storia del Carnevale Agropolese” Volume 1).

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