Da Napoli a Buenos Aires: l’esportazione del vino cilentano in Argentina a cavallo di due secoli

Gerardo Severino

Recentemente, nel corso di alcuni studi dedicati all’emigrazione Cilentana nel Sud America ho avuto modo di approfondire una tematica certamente poco nota ai più, quella cioè della massiccia esportazione di vino (Rosso, Rosato, Bianco, Aglianico, Fiano) che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, interessò l’allora Circondario di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno, luogo di produzione di ottimi prodotti vinari, con destinazione principale l’Argentina.

Nell’appurare come anche nel grande Paese Sudamericano la presenza dei Cilentani si era particolarmente rafforzata nei primi anni che avevano seguito l’unificazione nazionale del 1861, con importanti stanziamenti di comunità familiari nella stessa Buenos Aires,  aggiungiamo che l’interscambio commerciale tra i due Paesi era più remoto di quanto si possa oggi immaginare, risalendo, infatti, al 1855 – sotto il Regno di Sardegna – allorquando fu firmato un “Trattato di amicizia, commercio e navigazione”, poi prorogato anche sotto il Regno d’Italia. In realtà, non era stato il solo Piemonte (primo Stato italiano ad instaurare relazioni diplomatiche con l’Argentina sin dal maggio 1836), in quanto anche il Regno delle Due Sicilie, checché se ne dica, aveva allacciato ottime relazioni con Buenos Aires, tanto che non poche delle sue navi mercantili affrontavano l’Oceano, onde garantire sia il commercio che l’emigrazione meridionale verso le ricchissime terre che s’affacciano sull’immenso Rio della Plata.

Gli eccellenti vini campani (che certamente mi sembra superfluo riepilogare in questo ambito) conservati in ottimi e sicuri barili, raggiunsero così l’Argentina partendo dal grande porto di Napoli, lo stesso che manterrà tale funzione anche nei decenni successivi, come ci ricorda un preziosissimo studio, pubblicato nel 1908, dal Bollettino Ufficiale del Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, sul quale torneremo a breve.

In generale, l’esportazione del vino italiano in Argentina fu un fenomeno commerciale decisamente favorevole alla nostra economia nazionale, tanto è vero che nel decennio 1895 – 1904 l’importazione di vino italiano aveva raggiunto una media annua di ben 473, 703 ettolitri, facendo dell’Italia il primo Paese europeo chiamato a fornire vino all’Argentina, seguito da Spagna, dalla quale si importavano vini da taglio a schiuma rossa, di sapore neutro e di circa 14° di alcool, e dalla Francia, con i suoi pregiati prodotti d’élite destinati ai ceti dell’alta borghesia. Ebbene, nel Circondario Amministrativo di Vallo della Lucania vari furono i Comuni interessati, ovviamente come luoghi di produzione, dall’esportazione di vini pregiati alla volta del Sud e del Nord America, con particolare riferimento agli scali di New York, a quelli dell’Argentina, del Brasile e dell’Uruguay, ove maggiore era anche la presenza degli emigranti italiani, che evidentemente avevano dato vita a veri e propri empori per la ridistribuzione sul territorio dei vini importati. Riguardo all’Argentina, i vini Cilentani maggiormente richiesti da quel mercato provenivano dai vigneti di Castelnuovo Cilento, Baronissi e Rutino, gli stessi che esportavano anche in Uruguay, con scalo d’arrivo a Montevideo.

Mentre da Castelnuovo Cilento, da Capaccio e da Castellabate partivano per Napoli barili, soprattutto di ottimo “Greco” (localmente definito ancora oggi “Ellenico”), diretti a Santos e a Rio de Janeiro (Brasile), sempre da Castelnuovo viene segnalato, almeno nello studio del 1908, prima citato, la spedizione di 10.80 ettolitri di vino verso Han-Kiang, in Cina. Tornando all’esportazione del vino Cilentano in Argentina, osserviamo che, sulla base della statistica relativa al Commercio vinario della provincia di Salerno durante la 1^ quindicina di aprila 1907 (pubblicata sul Bollettino del 1908) giunsero a Buenos Aires ben 75.50 ettolitri prodotti a Capaccio, 60 prodotti a Rutino e 18.30 prodotti a Baronissi, posti in commercio per esportazione con prezzi che variavano fra le 35 e le 45 lire ad ettolitro, corrisposti al produttore ed ai quali venivano applicati i costi dell’intermediazione e della spedizione stessa. Le percentuali di vino esportato, purtroppo, sarebbero state ben presto destinate ad una forte diminuzione, avendo preso piede le massicce richieste locali (ci riferiamo all’Argentina) di vino proveniente dalla Puglia, per poi interrompersi del tutto, e per tutto il mercato italiano, nel 1914 a causa dello scoppio della “Grande Guerra”.

Spiace ammetterlo, ma a “mutare le sorti” dell’esportazione vinicola dal Circondario di Vallo della Lucania concorse, purtroppo, un fattore interno, prim’ancora che la concorrenza, spesso sleale, di altri Paesi. Lo stesso studio pubblicato nel 1908 ci racconta, infatti, di come fossero arrivati in Argentina dei pessimi vini provenienti dalla Grecia, peraltro partiti dal porto di Genova, i quali, una volta “sdoganati” in quel di Buenos Aires venivano posti facilmente in commercio, fatti però passare come vini italiani. In verità il danno maggiore pervenne dal vicino Cile, che iniziò ad esportare in Argentina sia vini rossi comuni, come il Cabernet e vini bianchi di Panquehue, ottenuti dai vitigni di Pinot, Cabernet e Semillon: vini tutto sommato leggeri, poco colorati, giustamente acidi, di profumo delicato, molto simili ai vini di Bordeaux. Non meno felice fu, infime, il ricorso ai vini della California, che proprio agli inizi del Novecento lanciò anche sul mercato argentino alcuni tipi di vino fino rosso (Zinfandel, Clarete e Borgogna) e bianco (Hock di una Riesling e Clablis), ma anche vini spumanti, diffusi dalla Casa vinicola Big Tree Brand, vini che furono addirittura pubblicizzati sui tram di Buenos Aires.

Con la fine della prima guerra mondiale, l’esportazione di vini dall’Italia diminuì drasticamente, soppiantata appunto dalla convenienza, in termini economici e non certo qualitativi, di poter disporre di grosse partite a prezzi più contenuti, data per l’appunto la vicinanza di Cile e California. Rimaneva e rimane ancora ferma la tradizione rappresentata dal consumo dei più pregiati vini piemontesi e toscani, così come di quelli friulani, sebbene rimasti punti di riferimento per le sole Comunità italiane, peraltro, ancora oggi, ben nutrite sia in Argentina, Brasile che in Uruguay, saldamente legate alla Patria lontana e alle sue meravigliose bottiglie.

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