50 anni fa moriva Giuseppe Ungaretti: ecco il Cilento visto dal poeta

Antonella Agresti
Giuseppe Ungaretti

“ […] Non entrano nei fatti vostri; vi rivolgono di rado la parola, ma non perché timidi o privi d’eloquenza, ma perché assenti in propri pensieri. Ma basta che esprimiate un desiderio, ed eccoli farsi a pezzi per accontentarvi: lo fanno per inclinazione a farsi benvolere, e mi pare ormai civiltà assai rara. Terra ospitale, terra d’asilo! ”

Giuseppe Ungaretti, morto l’1 giugno del 1970, definiva il popolo cilentano che aveva avuto modo di conoscere durante un viaggio del 1932 che lo aveva portato a Paestum, Agropoli, Pioppi, Velia, Pisciotta e in altre località campane il cui ricordo non mancò di affidare alla penna. Le pagine dedicate al Cilento fanno parte dell’opera Il Deserto e dopo, precisamente della terza parte della raccolta intitolata Mezzogiorno. Non potevamo dunque esimerci, oggi, dal ricordare questo nostro turista d’eccezione che 50 anni fa ci lasciava a Milano; il suo ricordo è rimasto indelebile e dopo anni i suoi scritti continuano ad essere oggetto di studio.

Poeta mai uguale a se stesso, Ungaretti scoprì prestissimo la passione per la letteratura. Fondamentali per la sua produzione artistica furono le amicizie che a Parigi strinse con gli esponenti dell’avanguardia artistico-letteraria tra cui Apollinaire, Picasso, Modigliani e De Chirico. Ma a segnarlo nel profondo fu, senza dubbio, l’esperienza terribile della Prima Guerra Mondiale. Arruolatosi volontario, Ungaretti combattè sul Carso e al fronte francese. Fu in trincea, circondato dalla morte fisica e non solo, che il poeta scrisse “lettere piene d’amore” che costituirono la raccolta Il Porto sepolto. Si tratta di una poesia che rompe i canoni tradizionali: versi liberi, punteggiatura assente e trionfo di una parola “nuda”. Scelte stilistiche più affini alla tradizione saranno invece recuperate nella raccolta Sentimento del tempo del 1933.

Fu proprio tra il 1931 e il 1933 che Ungaretti viaggiò molto in qualità di inviato della Gazzetta del Popolo avendo modo, così, di conoscere anche i nostri luoghi. Nel primo capitolo di Mezzogiorno, che porta per titolo Elea e la primavera, in viaggio da Salerno a Velia, Ungaretti attraversa la piana del Sele e riserva un’annotazione anche per le bufale “che s’avvoltolano nel sudicio per non sentire le mosche, che vanno in giro con quella crosta, sulla quale cresce anche l’erba, portando le gazze che le prendono per alte zolle. Brave bestie del resto, e produttrici del latte che dà quelle squisite mozzarelle, un vanto – e perché no? – di questa regione.”  Nei pressi di Agropoli, il poeta alza lo sguardo: “[…]che cos’è quell’alta rupe che ci appare lastricata fino in cima da campicelli come da un’elegante geometria?[…] è la Punta d’Agropoli, e, come un canguro, sulla sua pancia, nascondendola al mare, porta la sua città: un’unica strada che le case fanno stretta, che bruscamente diventa quasi verticale, e ci offre una prospettiva di gente sparsa in moto.” Giunto a Velia, è il silenzio ad essere suggestivo e  Ungaretti torna con la mente ai grandi pensatori che calpestarono quella stessa terra: “E di te, città disperata, e di voi, primi occhi aperti, o Eleati, non è rimasto altro, se non un po’ di polvere? La vostra forma mortale era bene un’illusione, come tu dicevi, Parmenide; ma la vostra voce, io la sento in questo silenzio: ciò che era materia immortale in voi, è immortale. Anche in questo mio corpo caduco.”

Nel taccuino di viaggio non mancano, poi, i bozzetti di Pisciotta e Palinuro: “Pisciotta si svolge in tre fasce su una parete: la più alta è il vecchio paese, di case gravi e brune e a grandi arcate; in mezzo, sono ulivi sparsi come pecore a frotte; la terza, a livello dell’acqua, la formano case nuove e leggere, i cui muri sembrano torniti dall’aria in peristili.[…] Il Porto di Palinuro ha le casette bianche, e l’ultima è rosa: sembrano sulle prime biancheria stesa ad asciugare, e poi blocchetti di gesso. […] Non ho mai visto acqua di pari trasparenza a quella che scopro avvicinandomi al porto. Vediamo la sabbia del letto come pettinata soavemente, e i nastri delle alghe trasformare in serpenti agitati, la bella capigliatura.”

Un capitolo a parte è dedicato a Paestum. La Rosa di Pesto riporta la meraviglia del poeta di fronte ai templi: “ Circondandoli di febbre, seminando per tante miglia all’ingiro la paura, il tempo ha difeso per noi dalla morte il miracolo della loro forza. Che vediamo crescere, dominare, farsi arida, tremenda, disumana, e farsi pura idea via via che ci avviciniamo. Ora che siamo vicini, avviene che uno stormo di cornacchie si mette in fuga dal tempio di Poseidone; e appena in aria, una prima cornacchia lancia il suo gracchio; le altre rispondono rifacendo più e più volte quel verso. Di nuovo il corifeo strazia l’aria: questa volta i gracchi erano due, di tono nettamente più acuto; e il coro ripete i versacci accelerando il ritmo. Dopo, esse, in una confusione di strilli, spariscono… Sarà per averci fatto il nido da tante mai generazioni, sarà caso, sarà natura di questi uccelli atri, ma la metrica del loro canto è quella del tempio. […] Ed allora girandogli intorno, l’uomo raggiunge l’ultimo limite dell’idea del suo nulla, al cospetto d’un’arte che colla sua giusta misura lo schiaccia.”

Pur segnati dall’esperienza della morte, per via della guerra e dei numerosi lutti familiari, il cuore e la penna di Ungaretti non soccombettero alla disperazione. Il poeta riuscì a mantenere vivo lo stupore di fronte alla bellezza dell’arte; a conservare la fiducia nell’uomo, seppure messa a dura prova dall’orrore e dallo sgomento. Nel giorno del suo ottantesimo compleanno Ungaretti affermò: “ Sono stato un uomo della speranza; anzi, il soldato della speranza.”

Il poeta nacque ad Alessandria d’Egitto l’8 febbraio del 1888.

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