“Il vagito dell’Emmanuele”: torna il presepe artistico a Bellosguardo

Katiuscia Stio

BELLOSGUARDO. “Il vagito dell’Emmanuele”. Anche quest’anno, come ormai tradizione vuole da un po’ di tempo, gli artisti artigiani dell’Accademia del Presepe di Bellosguardo hanno realizzato nella chiesa madre di San Michele Arcangelo una vera e propria opera d’arte: un presepe artistico di notevole grandezza che di anno in anno rappresenta un tema cristiano, sociale. L’allestimento presepiale che si propone per Natale 2019 è ispirato alla parabola del Buon Samaritano in Lc 10,25-37 ed ha come titolo “Il vagito dell’Emmanuele”.

La scenografia è una veduta della Gerusalemme dei nostri giorni: il Muro del pianto, la moschea di Omar con il suo minareto e un accavallarsi di casupole scavate nella roccia.

«Tale scenario è simbolico e vuole rappresentare ogni città, ogni luogo dove la quotidianità vive i suoi affanni, le sue fatiche, le sue gioie e le sue speranza. – spiega don Antonio Romaniello, parroco delle comunità di Bellosguardo e Roscigno- Gerusalemme potrebbe essere Bellosguardo o qualunque altra città. È moderna, fuori dal tempo che il presepe racconta, per evidenziare che da sempre la vita di ciascuno è piena di impegni, preconcetti, preoccupazioni e angosce che limitano lo sguardo al proprio stretto ambito vitale. Non riusciamo a notare che “un uomo, scendendo da Gerusalemme a Gerico per le gole delle montagne, incappò nei ladroni, i quali, dopo averlo ferito crudelmente, lo spogliarono di ogni suo avere e fin delle vesti, lasciandolo più morto che vivo sul bordo della strada” (cit. Maria Valtorta, l’evangelo come mi è stato rivelato).Il ciglio della strada non è il tepore rassicurante di casa propria; una casa incastonata nel centro della città, una di quelle case, di quegli spazi, vissuti da uomini e donne che, preoccupati di preservare la propria immagine o troppo concentrati su di sé faticano a ricercare lo sguardo dell’altro per individuarne bisogni e necessità. Oggi come allora si rischia di sentire la necessità di fuggire i bisogni degli altri gettando “uno sguardo sfuggente su colui che geme nel suo sangue e affrettare il passo”. È il timore di compromettersi, di entrare a contatto con le ferite dell’altro, forse per evitare che quelle dischiudano le proprie ferite che attendono un tocco per esplodere. Rischiamo di vedere le ferite dell’altro come l’ostacolo ai nostri progetti, ai nostri equilibri, alla situazione che ci siamo costruiti e che per nulla al mondo vogliamo abbandonare. È questo il modo che caratterizza l’agire umano in ogni luogo e in ogni tempo. Ma un vagito flebile, nel freddo di un ripostiglio, cambia il corso della storia. Ecco un uomo che tirandosi fuori dal turbinio della città si volge al ferito, ne contempla le piaghe e si riveste di umanità; abbandona il proprio mondo per entrare nel mondo dello sciagurato. La vita del samaritano sembra dissolversi per rimaterializzarsi nel servizio al povero malcapitato. Giunto in città quando il malcapitato è oramai al sicuro, la vita del samaritano riprende il suo corso. È inutile cercare sulle strade o tra gli anfratti delle rocce, nelle case o nei sottoscala, la scena del buon samaritano che soccorre lo sciagurato; non è presente nel nostro presepe! Al suo posto uno spazio vuoto, ben illuminato, memore di quel gesto di umana pietà. È proprio tale azione che sposta lo sguardo del visitatore dalla strada all’albergo. È l’albergo il cuore pulsante del presepe! L’albergo che ospita al piano superiore una vicenda di amorevole pietà mentre nella stalla avviene l’incipit della più grande e più sublime storia di amore. È lì, in quella stalla, che il Dio del cielo e della terra, l’autore supremo di ogni cosa, è nato nella carne per soccorrere ogni uomo piagato, per fasciare ogni ferita, per tendere la mano a ognuno bisognoso di consolazione, a infondere speranza a ogni cuore scoraggiato. In quella stalla, il flebile vagito di un neonato infreddolito e tremante fa vacillare i cardini della storia per instaurare l’era di una umanità rinnovata dall’esercizio della carità, ispirata a quella totale e oblativa del Dio fatto uomo. Lo sguardo del visitatore deve fissarsi su questa scena centrale: occorre un po’ contemplare quel bambino infreddolito, la pietra sepolcrale che gli fa da culla, le manine poste già in una posa cruciforme, la nudità che incontreremo ancora una volta sul Calvario, piccola altura posta appena fuori dalla città di Gerusalemme, dove il Sacrificio d’amore del Cristo sarà pieno e totale. Questa scena di natività già richiama la sofferenza e la morte del Verbo eterno fattosi uomo per un desiderio di eccessivo amore. Il presepe che vi proponiamo è bello! ma non basta ammirarne la bellezza, lasciamoci soprattutto guidare da lui a contemplare la bellezza del Mistero di Carità che vive dentro di noi e a tirarla fuori».

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