La modernità disarmante di San Toribio Mogrovejo, patrono di Cannalonga

Nello Amato

Ho sempre amato e adorato la figura dell’Apostolo del Nuovo Mondo, di Toribio Mogrovejo, patrono dei vescovi dell’America latina, del Perù e, in Italia, di Cannalonga, il cui esempio di coraggio e modernità lascia disarmati. Io credo che San Toribio, sconosciuto nel resto d’Italia, sia la figura di santità, ma prima ancora di umanità, che oggigiorno possa offrire maggiori spunti di riflessione.

Quando ero seminarista trovai per un caso fortuito e fortunoso un libercolo, “San Toribio, apostolo del Nuovo Mondo”, prefazione di Fidel Fernandez, edito da Itaca, 2007, che mi ha concesso di approfondire la vita e le opere di chi ha affermato per la prima volta che gli indios avevano un’anima, che occorreva imparare la loro lingua per l’evangelizzazione e di conseguenza i nativi non dovevano essere costretti ad apprendere le orazioni in latino.

Nacquero, così, le prime grammatiche della lingua peruviana, il catechismo e diversi sinodi, visite pastorali in una Diocesi vastissima. Toribio era un uomo, nel vero senso della parola, vissuto in un’epoca dove il “diverso” era considerato inferiore e da usare a fini schiavistici. Dopo la scoperta del Nuovo Mondo, il mito del nativo americano era divenuto sinonimo di “incivile, inumano”. Toribio capovolge questa visione, nonostante appartenga alla classe nobile del Paese conquistatore.

Oggi le nuove generazioni sovente puntano il dito contro chi è considerato “diverso”, i problemi sociali, economici sono attribuiti all’ondata migratoria che stiamo subendo. Se è vero che servono controlli, soprattutto di carattere sanitario, è pur vero che il diritto di asilo è un principio costituzionale e considerare profughi e giovani scampati a guerra, povertà, violenza alla stregua di delinquenti e incivili appare un tuffo nella storia di diversi secoli, all’epoca in cui è vissuto Toribio, il quale ci ha insegnato l’etica della Chiesa come madre che accoglie e non giudicante. In quel periodo, gli indios, che vivevano nudi nelle loro comunità, erano ritenuti, come Adamo ed Eva, dalla corte spagnola e portoghese, incolti e da cristianizzare nel senso di civilizzare. Anche oggi certi passi biblici sono strumentalizzati per seminare un sentimento antisociale e inumano come l’omofobia, la considerazione di amori “naturali” e altri illogici, che non “provengono da Dio”. Toribio, invece, ci ha insegnato che ogni amore vero proviene da Dio, “perché tutto si fa per mezzo di lui e in vista di lui e per edificare il prossimo”. Questo è il senso dell’assoluto. Egli è santo perché, come ognuno elevato agli altari, è stato pienamente umano, cioè misericordioso, l’attributo massimo di Dio fatto carne.

Il lessico toribiano è altrettanto significativo e moderno. “Lingua” , “edificazione”, “indio”, “Messa” sono significanti associati a nuovi simboli pienamente conformi al Vangelo, al comandamento che impone di amare il prossimo come se stesso. Ma cosa può spingere un uomo ad andare alle periferie del mondo, “dove nessuno si arrischia” ? Il libro citato, a pag. 39, descrive un episodio emblematico, ripreso da una testimonianza del processo di beatificazione nel 1631, quanto basta per indurci all’emulazione: “Mentre si dirigeva verso la dottrina di Atavillos o Pacarao, lungo la strada gli diedero notizia che in un dirupo molto profondo e con un sentiero pericolosissimo c’era un povero indio malato. Immediatamente decise di andare a trovarlo e di scendere senza che nessuno avesse il coraggio di seguirlo. Visitò l’indio e lo consolò e ritornò a salire la costa con ammirazione di tutti […] “. Scendere per risalire insieme, ecco cos’è la vera sequela di Cristo.

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