Importanti riconoscimenti per la scrittrice roscignola Maria Pia Lorenzo

Katiuscia Stio

Maria Pia Lorenzo, il suo racconto sull’emigrazione al Sud viene pubblicato su Il Fatto Quotidiano, mentre la sua poesia sulla “Luna Rossa” riceve un premio come finalista.
Maria Pia Lorenzo, scrittrice, autrice, editrice e talent scout di vero talento, è stata professoressa di italiano presso un Istituto superiore, ora è mamma e nonna a tempo pieno, autrice di romanzi, nativa di Roscigno, ha nel tempo ottenuto vari premi, già a Firenze le era stato attribuito nel 2002 il Premio ACSI – Firenze Capitale d’Europa 2002 per il suo romanzo “La signora della Penombra”.

L’affascinante luna rossa, dell’eclisse dello scorso settembre, è stata esaltata in una poesia che
La sensibile Maria Pia Lorenzo ha trasformato in un canto poetico che ha ottenuto vari riconoscimenti e premi, anche a Firenze.
Presso Palagio di Parte Guelfa-a Firenze, per il Concorso Letterario “Firenze Capitale d’Europa”, sezione Poesia inedita il primo dicembre scorso ha infatti ricevuto il premio come finalista con la poesia “Ehi,ehi,luna luna”.
Ha ricevuto per la stessa poesia una Mezione di merito al Concorso letterario “Villa Bruno”di San Giorgio a Cremano.

“ Sono del Sud.
Mi sembrava, dopo tanti anni, di avere lenito la pena delle partenze di mio padre per Basilea (Svizzera); ma, ogni volta che osservo mio figlio preparare la sua valigia, si rinnova in maniera lancinante. E rivedo mia madre, con mani mute e misurate, poggiare sul letto la biancheria stirata e accuratamente piegata. E rivedo mio padre, con mani nervose e stanche, prendere la valigia di cartone dall’angolo accanto all’armadio, poggiarla sulla cassapanca, e aprirla dopo averne slacciato lo spago. E rivedo le valigia, compagna della sua vita, sbadigliare un’inutile malinconia, stremata dal triste rito di quelle mani tremanti, intenti a premere gl’indumenti per recuperare altro spazio. Mani grandi, febbricitanti: pur desiderando prendere a pugni il mondo, continuavano lentamente a dannarsi l’anima richiudendo la valigia e rinforzandola di nuovo con lo spago. Incerte intimidite indifese. Confuse, arrabbiate. Solitarie come canne al vento. Tagliavano poi il pane a fette; vi univano lentamente il companatico; e avvolgevano tutto in un canovaccio, insieme a un paio di mele rosse e a un pugno di noci, asciugando qualche lacrima ostinata, salata spenta ribelle.
Come sono tristi le mani degli emigranti! Quando tutto era pronto per il viaggio, mio padre ci accompagnava a letto baciandoci lentamente il viso, la fronte. E poi ancora … e ancora. Con le mani ritornava sulla fronte, sul naso: spostava qualche ciocca di capelli dietro alle orecchie, fissava negli occhi i particolari di ognuna di noi, e respirava forte un istante … solo un istante. Intimidita spiavo ogni suo dettaglio: lo sguardo dignitoso e fiero, le affettuositàlievi e sostanziali, lo sconforto lento e controllato. Nulla sfugge ai figli degli emigranti! Per questo motivo, durante la prima partenza nella notte della Befana, e durante quelle successive, rimasi vigile e attenta a ogni fruscio delle ore e dell’alba. Che, anticipata da passi sommessi, bisbigli concitati e frettolosi, mi trovò sveglia: attenta alla corriera in arrivo. Mio padre venne a salutarci nel buio del sonno.
Sicuro di non essere visto, si avvicinò ai nostri lettini: sentivo i suoi singhiozzi trattenuti mentre stringeva a sé, prima l’una, poi l’altra sorella. Sentivo il suo respiro su di me: sveglia e accorta, a sua insaputa. Sentivo riversare sulle mie piccole spalle le sue debolezze di padre: senza riserva, sicuro del mio sonno. Sentivo le sue mani calde avvolgere il mio viso, e le sue lacrime bagnare i miei occhi, mentre si stringeva indifeso al mio corpicino esile. Intanto tenevo fermo il dolore nelle manine, chiuse a pugni; e pur desiderando aggrapparle al suo collo, e gridargli: – Papà, ti prego, non partire! -, le chiudevo ancora … e ancora. Trovando la forza di fingere, trattenevo, negli occhi chiusi e nel respiro regolare, la mia pena adulta per non ferire la sua dignità umile, vagante di bambino. Sentivo i singhiozzi nelle sue mani. Sentivo i suoi pugni vibrare contro la parete delle scale, e poi sulla porta di casa, richiusa alle sue spalle. Sentivo i suoi passi baciare l’acciottolato e perdersi nel vento.
Solo allora, sicura della mia intimità, portavo le mani al volto e piangevo, piangevo il mio dolore di bambina, mentre il clacson della corriera, ultimo addio, portava via con sé i mesti lamenti dell’alba. Come sono tristi le lacrime dei figli degli emigranti! Come sono tristi le lacrime dei giovani emigranti!”

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