Terremoto ’80, il ricordo della tragedia e la “mancata” ricostruzione

Antonio Citera

Era una tranquilla domenica sera. In tv andava la differita di Inter – Juventus. Avevo 7 anni. Ero in casa con amici quando, all’improvviso, un boato, poi il buio. La terra tremava, era impazzita, le pareti di casa sembravano toccarsi, più di un minuto di terrore, la gente stordita era in strada, tutti a correre.

Erano le 19.34 del 23 novembre 1980.

Una data segnata dalla tragedia, dalla catastrofe – 280.000 sfollati, 8.848 feriti e 2.914 morti. La Campania, il Cilento, il Vallo di Diano, parte della Basilicata e soprattutto l’Irpinia erano in ginocchio, disarmati dinanzi a cotanta ferocia dettata dalla natura.

Emblematico è rimasto il titolo del Mattino di Napoli del 26 novembre, tre giorni dopo il terremoto, con il grido FATE PRESTO in prima pagina. Quel titolo è diventato addirittura un’opera d’arte.

Per novanta interminabili secondi la terra tremò senza pietà. Morirono bambini, anziani, donne, uomini. Non morì la speranza dei tanti soccorritori, che dopo il drammatico ma al contempo duro appello in tv del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, si rimboccarono le maniche e si recarono nelle zone colpite dal sisma.

Si respirava solo morte e distruzione.

Passarono i mesi, gli anni, la speranza era animata dalle promesse e dal fiume di denaro che arrivava per la ricostruzione ma, aimè, scivolava via come un’anguilla in un torrente.

Dopo 38 anni, siamo ancora qua a guardare l’orizzonte aspettando la completa ricostruzione che si è arenata nella burocrazia di un’Italia sconfitta ancora una volta dalla sua politica senza ragione.

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