Gaber Scik Review: un raffinato omaggio a Giorgio Gaber

Antonella Agresti

Lo spettacolo ha visto la partecipazione di diversi giovani talenti cilentani

AGROPOLI. Lunghi applausi ieri sera al Teatro De Filippo per Pierluigi Iorio e tutto il cast di Gaber Scik Review – Omaggio a Giorgio Gaber. Dismessi per una sera i panni del direttore artistico, Iorio è stato protagonista – insieme a Massimo Pagano, Alina Di Polito e l’orchestra degli Artisti Cilentani Associati – di un emozionante viaggio nella musica e nell’arte di Gaber. Si è trattato di una rivisitazione dello spettacolo messo in piedi già cinque anni fa in occasione del decennale della scomparsa del cantautore milanese: i testi di Barbara Maurano e dello stesso Pierluigi Iorio hanno avuto il merito di riportare all’attenzione del pubblico la dirompente originalità delle canzoni di Gaber, straordinariamente moderne nonostante i loro cinquant’anni.

Il Signor G nasce, Barbera e Champagne, Il corrotto, Io mi chiamo G, Le elezioni; il repertorio di Gaber è stato riproposto in maniera completa e tutt’altro che banale. L’interpretazione di Pierluigi Iorio – che ben ha omaggiato il teatro canzone destreggiandosi sapientemente tra canto e recitazione – ha saputo coniugare ironia e ricercatezza dando vita ad uno spettacolo spiritoso e acuto al tempo stesso. Ad impreziosire i momenti musicali, inoltre, ci ha pensato la voce di Alina Di Polito. Il pubblico in sala ha particolarmente gradito la parentesi de Il Musichiere durante la quale la Di Polito e Iorio si sono avvicendati sul palcoscenico interpretando canzoni quali Non arrossire e Torpedo Blu, insieme a successi di Mina, Massimo Ranieri, Gianni Morandi, che hanno piacevolmente rievocato il mood dei “Favolosi Anni ’60” anche grazie alla bravura dell’orchestra composta da Mauro Navarra (pianoforte), Francesco Citera (fisarmonica), Lello Cardone (chitarra), Antonio Brunetti (basso), Denis Citera (batteria), Antonio Fedullo (tromba), Pasquale Massanova (sax).

Ma Giorgio Gaber, lo sappiamo, ha cantato e raccontato l’Italia nelle sue storture e contraddizioni ed ecco allora che Gino, il portiere calabrese di Palazzo Italia interpretato da un bravissimo Massimo Pagano, diventa l’anima di un Paese forse un po’ troppo nostalgico che arranca e fa fatica a stare al passo con la modernità. Gino fa il suo ingresso in scena trascinandosi dietro una sedia tricolore che rimarrà al centro del palcoscenico per tutta la durata dello spettacolo. Quella sedia ci ricorda chi siamo, dove siamo e di cosa stiamo parlando: è la bandiera di una nazione le cui vicende politiche e sociali si riassumono metaforicamente nel via vai che affolla Palazzo Italia (Palazzo Madama) proiettato sullo sfondo.

Gino dialoga costantemente con un immaginario dirimpettaio che scopriamo essere Gaber stesso; a lui racconta tutto quel che accade tra i corridoi del Palazzo divenuto, ormai, tempio di corruzione e immoralità. Il racconto del portiere si fa più pungente e dissacrante grazie all’uso di uno stretto dialetto calabrese che, in Io mi chiamo G, si contrapporrà alla cadenza milanese del personaggio di Iorio. Su tutto, però, Gino è preoccupato per le sorti di suo figlio del quale non condivide il pensiero e che impersona, sebbene non compaia mai sulla scena, una intera generazione irretita dalla precarietà e dall’incertezza del futuro.

Le canzoni di Gaber si rivelano – così – sorprendentemente attuali, talvolta addirittura profetiche, e ben si adattano alla disanima di tutti i maggiori temi socio-politici del nostro tempo: corruzione, disoccupazione, immigrazione, questione meridionale, ius soli, in Gaber Scik si parla di tutto questo senza mai cadere nell’infido terreno della retorica. C’è spazio allora anche per una arguta rivisitazione delle strofe di Ho visto un re di Enzo Jannacci che vede Iorio e Pagano scendere in platea e divertire il pubblico con un misurato sarcasmo sulla situazione politica attuale.

Uno spettacolo completo, dunque, che appaga lo spettatore con le giuste dosi di ilarità e autocritica perchè l’Italia cantata da Gaber siamo noi. “Io non mi sento italiano” è l’agrodolce consapevolezza che ci accomuna, anche se con motivazioni diverse, e su cui cala il sipario. Il pubblico applaude e riflette: siamo davvero “la strana famiglia”, dalla “morale così stanca e malata” che dovrebbe tornare a imparare e insegnare “soltanto la magia della vita.”

 

Condividi questo articolo
Exit mobile version