Ad Agropoli, poesia tra le “Le Mie Rime” di Antonio Di Martino

Carmen Lucia

Una suggestiva lirica dedicata ad Agropoli tra “Le Mie Rime” scritte da Antonio Di Martino (Scritture Segrete, Prefazione di Ruggero Cappuccio, 2009)

Ad Agropoli

 

Dolce ed ospitale terra

che negli anni della vecchiaia

serenità hai dato al mio vivere.

Ridente cittadina, come in una culla

di verdeggianti colline che ti fan corona

giaci protetta,

sì che si dissolvono d’inverno

gli sferzanti assalti  del freddo maestrale

o dello scirocco la  fastidiosa calura.

Del tuo incontaminato mare,

di specie viventi meravigliosa oasi,

custode sei premurosa.

A te grato rivolgo il mio pensiero,

o generosa, di Dio sublime dono.

Così Antonio Di Martino, avvocato di nobili origini napoletane, descrive Agropoli, quando negli anni Novanta si trasferisce da Portici per seguire i suoi figli nel Cilento. Ad Agropoli trascorre gli ultimi anni della sua vita, con la moglie Dora e i suoi tre figli, che raccolgono le liriche dell’amato padre in un corpus di poesie intitolato Le mie Rime, Prefazione di Ruggero Cappuccio (Scritture Segrete Editore, Salerno, 2009).

Nella parte centrale della raccolta, quasi a disegnare la geografia dell’anima del poeta, è presente un trittico, prima la poesia  Alla mia cara Napoli, poi  Ad Agropoli e, infine, la lirica Il mare:

«Mare, solenne e maestoso, / all’un tempo benevolo e crudele, / ma anche ispirator sublime /di afflati profondi d’amore».

Agropoli è descritta, nella dittologia sinonimica del primo verso, come “dolce e ospitale” e, ancora, “ridente”, “custode premurosa”,  infine “generosa” nell’ultimo verso:  la città appare come un “dono” di Dio, una figlia che giace in una culla “di verdeggianti colline”.  L’incanto dello  sguardo di Antonio Di Martino su Agropoli, meravigliosa oasi di verdeggianti colline,  si concentra in un paesaggio  che ha contorni precisi, ma  quasi affidandosi, nello sguardo di chi la contempla, alla visione del sogno.

La percezione genera ristoro e gratitudine: Agropoli è, dopo Napoli, un confine dell’anima, impalpabile, un’epifania, dove il mare, le colline, i venti sono gli elementi di una natura benigna che disegnano uno scenario irreale e concreto, un paesaggio che genera quiete, esaltazione, gratitudine, nelle rifrangenze continue degli iperbati e nelle impunture verbali folgoranti (sì che si dissolvono d’inverno / gli sferzanti assalti  del freddo maestrale / o  dello scirocco la  fastidiosa calura).

Con la lirica dedicata ad Agropoli, un’altra preziosa tessera si aggiunge al mosaico delle descrizioni della cittadina, dopo Ungaretti che, viaggiando come inviato negli  scenari epici della pianura di Paestum, della Valle dell’Alento, di Elea, Punta Licosa e del Monte Stella, come corrispondente di viaggio per la terza pagina della “Gazzetta del Popolo” di Torino, nel luglio del 1932,  così si fermava a descrivere  Agropoli nel reportage di viaggio intitolato Il deserto e dopo:

 

E che cos’è quell’alta rupe che ci appare lastricata fino in cima da campicelli come da un elegante geometria? E perché l’erba, quasi azzurra su quella rupe, trascolorisce irrequieta, come da un sottopelle di tatuaggio a una scorticatura smaltata? Ne vedrò più tardi l’altra anca, nuda e scabra: è la punta di Agropoli, e, come un canguro, sulla sua pancia, nascondendola al mare, porta la sua città: un’unica strada che le case fanno stretta, che bruscamente diventa quasi verticale, e ci offre una prospettiva di gente sparsa in moto.

 

E dopo la scrittrice francese Marguerite Yourcenar, che ambientò nel Seicento uno dei suoi  racconti, Anna, Soror, della famosa raccolta intitolata Come l’acqua che scorre (1981),  dove descrive il Castello di Agropoli:

La dimora, costruita al tempo degli Angioini di Sicilia, aveva l’aspetto di una roccaforte. […] Le giornate si trascinavano, tutte uguali, lunga ognuna come un’intera estate. Il cielo, che la calura addensava sempre di una foschia quasi incollata alla terra, baluginava dalla collina fino al mare.

Come per la Yourcenar, la tenuta avvolgente dei versi della preziosa raccolta di liriche dell’avvocato Di Martino dilata le visioni del mare, dei paesaggi, delle persone amate, nel gioco illusorio di immagini e suoni, nell’abbaglio di raffinate esecuzioni sonore e astrazioni, nella classicità di inusitate forme, che sembrano ricalcare le movenze sintattiche e lessicali della prosa d’arte. Smarrimenti, arcane corrispondenze, stupefazioni ed epifanie, ma soprattutto sentimenti di grande fierezza che richiamano il “forte sentire” di Alfieri caratterizzano queste “mémoires secretes” di Antonio Di Martino, come nell’incipit della poesia che apre la raccolta intitolata  L’Essere:

 Essere,

parola oscura ai limiti del nulla,

che ti celi ferita allorché, violento irrompe

il turbinio di effimeri piaceri.  

 

Una poesia metafisica quest’ultima dove dominano la forza, lo straniamento, la fuga nel sogno e nella visione, l’emblematica fierezza che connota tutti i versi di questo corpus di liriche. Il lessico è ricercato, impreziosito da quelle parole “rare e peregrine” come le definiva Leopardi, parole come: il turbinio di effimeri piaceri; la onirica funzione; non il silenzio del nulla, ottundente ed assoluto; di fallaci disegni la caduca mente. A livello morfosintattico, ricorrono inversioni, derivate dalle costruzioni della sintassi latina: La rotabile lascio, /con la macchina al ciglio. /Accorto nel sentiero m’inoltro, / assorta la mente / a permearsi di uno strano silenzio, / dal  lieve fruscio delle fronde appena interrotto, come  è evidente da questo segmento testuale tratto dall’incipit della lirica La selva. Nel magma di visioni proliferanti, dove dominano l’Ira, la Cortesia, l’Apparire, l’Anelito di Libertà, l’Immensità, il Sogno, l’Essere (questi i titoli emblematici di alcune liriche), appare  preponderante l’ansioso fervore per la vita, il furore, le “passioni” della poesia preromantica.

Ma vi si distinguono anche echi e rimandi che ricordano la lirica Forse un mattino andando in un’aria di vetro di Montale, pensieri che s’insinuano in un quadro di riferimenti metafisici, soffiando dubbi sulla tenuta razionale del reale, come nella poesia, di matrice novecentesca, intitolata L’Apparire (di cui qui riportiamo l’incipit):

 

Impalcatura effimera,

contenitrice del nulla.

Di fisico vigore accorta immagine,

della misera assenza a mascherar, dello spirito le interiori virtù.

 

Le  liriche trapunte di  costrutti arcaicizzanti, ma anche di inquieti addensamenti metaforici  risentono di un impianto classicheggiante e di una modulazione colta, di una grande ricercatezza  sul piano della forma e in particolare del lessico. La poesia di Di Martino è una poesia di grande musicalità, che “lascia vibrare di sensazioni profonde” l’anima, così come si legge nei versi di un’altra bellissima lirica della raccolta, intitolata La selva:

 

È invece come un tenue suono

di una musicalità delicata

che l’anima ti incanta

e la lascia vibrare di sensazioni profonde.

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