23 novembre 1980: “La gente in strada, dai lampioni cadevano scintille”

Paola Desiderio
Terremoto 1980

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I miei ricordi di quella sera del 23 novembre del 1980 e dei giorni successivi sono dei flash. Sono le immagini di momenti particolari che rimangono nella mente di una bambina che all’epoca frequentava l’asilo. Non ricordo quello che feci durante il giorno, so dai racconti dei miei genitori che faceva molto caldo quella domenica. E così ne approfittammo per uscire tutto il giorno. Abitavamo a Capaccio e quella sera, prima di rientrare a casa, i miei genitori decisero di fermarsi a salutare una zia che abitava in centro a Salerno.
Mia zia abitava all’ultimo piano di un palazzo di sei piani. Ma alle 19.34 io ero in auto, in mezzo al traffico di Salerno, con mio padre, mia madre e mio fratello e mia sorella poco più grandi di me. Ricordo le scintille che cadevano dai pali della luce e delle persone in pigiama per strada. I miei genitori quando videro tutto questo strano movimento credettero che ci fosse stato un attentato terroristico. Era il periodo delle Brigate Rosse, la mente correva subito lì.
Invece no, le persone per strada spiegarono che c’era stata una scossa fortissima. Non si sapeva esattamente dove era stato l’epicentro, quali paesi erano stati colpiti. Non c’era internet, non c’erano i cellulari. Noi non avevamo parenti a Capaccio, per questo i miei decisero di non tornare a casa, ma di dirigerci a Scafati, dove abitavano i miei nonni paterni.
Il tragitto da Salerno e Scafati non lo ricordo. Probabilmente mi addormentai. Mio padre mi ha raccontato che rimanemmo a lungo bloccati su un ponte, in mezzo al traffico di auto. Che ebbe molta paura per noi. Man mano che procedevamo verso l’agro nocerino-sarnese la situazione appariva sempre più grave. A Nocera Inferiore era crollato un intero palazzo. Anche a Scafati erano morte delle persone. Raggiungemmo il ristorante dei nonni e trovammo lì anche tutti gli altri nostri parenti. Quella notte qualcuno dormì nelle auto, fuori al parcheggio. Io su un carrello, con una coperta addosso, in una sala del ristorante vicina all’uscita, in modo da potermi subito portare fuori se si fosse verificata un’altra scossa. Gli adulti rimasero svegli.
Ricordo nitidamente il mio risveglio il mattino del 24 novembre. Accanto a me c’era zia Elvira, una sorella di mio nonno, che vegliava su di me e impediva ai miei cugini di disturbarmi. Io ogni tanto aprivo un occhio e appena qualcuno mi guardava lo richiudevo, fingendo di dormire. Perché noi bambini avevamo capito ben poco e ritrovarci tutti lì, insieme, era come una festa. Quante cose ignoravamo e avremmo capito soltanto qualche anno più tardi!
Nei giorni successivi iniziò un grande freddo. E il lungo periodo delle scosse di assestamento. Nessuno poteva prevedere se avrebbe potuto essercene un’altra altrettanto o più forte. Noi abitavamo al secondo piano, senza ascensore. E ricordo che all’epoca, quando l’informazione sulla prevenzione e i comportamenti da tenere in caso di terremoto era praticamente inesistente, tutti scappavamo giù per le scale. Mia madre ogni volta mi afferrava per una mano e mi portava giù praticamente volando.
Sono stati mesi lunghi, mesi di paura, mesi di angoscia per le notizie che fin dai giorni successivi iniziarono ad arrivarci dai paesi dell’interno. Paesi che, poi avremmo saputo, erano stati completamente rasi al suolo in quei lunghissimi novanta secondi. Paesi che ancora oggi, dopo 35 anni, mostrano ferite indelebili che non si chiuderanno mai più.

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