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Il comandante Schettino e la ‘società della vergogna’

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A due anni e mezzo dal suo naufragio, la Costa Concordia si avvia verso il porto di Genova per essere ridotta in mille pezzi, sottraendosi finalmente allo sguardo desolato dell’Italia e del mondo. Enorme sarcofago metà bianco e metà ruggine, la nave ha pietrificato al suo interno gli oggetti e le valigie, il cibo e le bottiglie, i soldi, i gioielli, i quadri, persino una collezione d'alta moda di Mara Parmegiani, ma soprattutto, ed è l’unica cosa che conta, gli ultimi ricordi di quei 32 passeggeri che non riuscirono a raggiungere la riva. Il comandante Schettino, ufficialmente ‘in fuga dai giornalisti’, si gode intanto le sue vacanze all’isola di Ischia. Ospite di una sfarzosa festa dell’alta società locale, si lascia fotografare, con abbronzatura potente e camicia bianca, mentre è attorniato dal solito quadro di italiani Cafonal alla dagospia. Due mesi fa aveva anche lanciato un pubblico endorsement per un candidato sindaco di Meta di Sorrento, ritenendo il suo pensiero sul punto degno di nota. 
 
Queste notizie degli ultimi giorni, lette in contemporanea, forniscono una volta di più l'immagine di una parte d'Italia per cui la riabilitazione non solo è sempre possibile, ma è anche celere.  
'Sono inciampato accidentalmente sulla scialuppa', aveva detto coraggiosamente Schettino, quasi a voler suggerire ai giornali esteri quel ritratto di italiano imbarazzante che sono sempre pronti a registrare. Per settimane è stato l'uomo più rimproverato e umiliato della terra: non tanto per aver materialmente causato il disastro -le molteplici responsabilità dovranno accertarsi in sede propria- quanto per aver disatteso l'unica regola del diritto navale conosciuta anche dai bambini, e per di più senza mai pentirsene. Quella scialuppa 'di prima classe', occupata da capitano e ufficiali mentre decine di persone ancora lottavano col terrore, è stata una ferita profonda per la dignità del paese e per la leggendaria fierezza del mondo del mare. 
 
Ma nulla di ciò che è fatto in questo paese è tanto grave da guadagnarsi un biasimo quantomeno prolungato. C'è sempre un modo per 'cadere in piedi'. C'è sempre qualcuno pronto ad applaudire, ad ammiccare, a considerare motivo di ostentazione la compagnia di un nome celebre, qualunque sia la ragione della sua celebrità.
 
Nell’epopea degli eroi omerici l'onore sociale era sostanziale all'eroicità stessa. Uno scandalo, fosse esso familiare o militare, allontanava per sempre il soggetto dal suo contesto, in una realtà irreprensibile (e feroce) che la sociologa Ruth Benedict apostrofò come 'shame culture', 'cultura della vergogna'. Edipo Re, tradito miseramente dal destino, si acceca con una fibbia di ferro e lascia la sua amata Tebe senza voltarsi indietro.  
 
Ora l'antica Grecia è lontana, e per fortuna anche i suoi assolutismi senza redenzione. Nessuno merita l'ostracismo perenne del bando, e tutti hanno il diritto di far valere le proprie ragioni di innocenza, sia pure annacquando i sensi di colpa con l'indifferenza. Ma il culto della dignità, e la dicotomia errore-castigo, dovrebbero continuare ad avere un senso in quest’epoca addestrata a falsi miti e a modelli di cartone. Le colpe oggettive dei singoli non sono imperdonabili. Imperdonabile è una società che si fa prendere in giro da chiunque e il giorno dopo gli stringe la mano.  

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